Il poeta che tenta di far luce nella mia visione dall’interno, non è mai solo, neanche quando attinge consapevolmente alle risorse di pensiero, visione, memoria, proprie della solitudine; anzi è in questa condizione di volontario esilio e di estraneità che irrompe l’altro da me, il “Tu”, l’animo di un interlocutore evanescente immerso nella scrittura poetica che mi costringe ad uscire dalla soggettività espressiva e a riconoscermi in qualcuno fuori dal mio mondo percettivo.
Con l’immaginario interlocutore, avverto più intensamente le differenze, spezzo l’abitudine all’identico, il mio egocentrismo, e mi sorprendo a scoprire significati “altri” della parola, quasi un senso di universalità di metafore, affermazioni paradossali, un’idea di ritorno ad una originarietà tradita nel corso del tempo.
In questo distaccato amore per il “Tu” e nel paradosso che rappresenta nella mia scrittura, nasce il visionario essere “cosa”, l’incontro non retorico con l’altro, con il “sé” abbandonato nel divenire adulto.
Così posso ritornare bambino, il bambino sapiente che “non sa di sapere” e che prova ancora il sale della sapienza, il gusto della scoperta, la manipolazione degli oggetti per scoprire il mondo circostante; il bambino della conoscenza, dell’immaginazione e della fantasia, il bambino che osserva e trasforma gli oggetti in immagini profondamente poetiche.
Mi torna la voglia di chiedere, porre domande, creare metafore, affermare paradossi , libera di pensare fuori dagli schemi cementificati che, senza il mio compagno, difficilmente potrei sgretolare.
La funzione del “TU” ha indubbiamente un forte valore semantico, ma è anche la reale proposta di guardare dall’interno con gli occhi di questa anima, una musa non mitologica, tutta interiore che accompagna la mia scrittura nel discorso sul “sentire”, sul tempo, la vita, la morte.
© Marisa Cossu
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