http://Grazia Deledda
“Io son pallida e bruna.
Un amor fiero – svela l’oscura mia pupilla mesta …”
Generazioni di giovani contemporanei si sono forse imbattuti, nel corso degli studi, solo superficialmente, e per breve tempo, nella figura e nell’opera della volitiva scrittrice sarda, prima e unica donna italiana premiata con il Nobel della letteratura nel 1926 per il romanzo “Canne al vento”.
La lettura delle sue opere dà l’idea della difficile condizione delle donne fino ai giorni d’oggi e delle immani sfide che ciascuna ha dovuto affrontare per affermare la propria dignità e ottenere le pari opportunità sociali e civili.
L’Autrice nacque a Nuoro nel 1871. La sua vita, appartata all’interno di un piccolo paese della Barbagia, la consuetudine al rispetto delle consolidate tradizioni culturali proprie dell’ambiente di vita, le limitazioni al desiderio di volare lontano imposte dalle convenzioni dell’epoca, fecero della Deledda una voce solitaria e contrastata nel panorama letterario sardo e nazionale, sia in quanto donna, sia perché completamente assente ai fermenti culturali e sociali del periodo storico.
Di nobile ed abbiente famiglia, le furono tuttavia preclusi gli studi cui aspirava fin da bambina e, terminata la quarta elementare, fu autodidatta mediante la lettura dei più importanti scrittori del panorama europeo.
Subì quindi i limiti e l’arretratezza non solo dell’epoca coeva ma anche quelli imposti da una cultura primitiva, priva di affetti, isolata e padronale; tuttavia è in questo ambiente familiare e culturale che la fanciulla iniziò a maturare i propri sogni, il piacere della scrittura tutta segnata dalle esperienze delle forti passioni evocate dai personaggi del suo paese di cui, tra verità vissute e verità immaginate, narrava i turbamenti, le vendette e le più aspre tensioni, nelle relazioni umane e in quelle d’amore.
La Sardegna, isola di ancestrale bellezza, archetipo di tutti i luoghi, era ed è sotto alcuni aspetti, una terra senza tempo dove si consumavano i drammi narrati dalla Deledda.
Amante della letteratura, voleva emergere, guadagnarsi da vivere in modo autonomo con le sue opere, ma restava comunque una “illetterata” per l’insufficiente preparazione scolastica. Nei suoi brani narrativi spesso compariva in modo prepotente l’espressione dialettale che contribuiva a colorare i personaggi. La sfida alla società sarda fu sicuramente dura, ma anche in Continente non fu mai apprezzata abbastanza. Perfino al Nobel fu appellata dai giudici “bella signora”, all’atto dell’attribuzione del prestigioso premio.
La poetica dell’Autrice, colma di sentimenti intensi e selvaggi, si avvale di un’etica patriarcale mossa dalla presenza del fato, preda di forze superiori nelle quali le fragili e dolenti vite degli umani sono come “ canne al vento”. La Deledda sembrò credere, come i naturalisti, in un mondo oggettivo, volle essere oggettiva mentre in realtà rappresentava spesso se stessa nelle donne create dalla sua fantasia
L’arte di Grazia Deledda non è certo inconsapevole, primitiva, senza radici di cultura. Lo testimoniano le sue avide letture di fanciulla, che si andava formando alla scuola del naturalismo italiano, cui seguirono i più ardui esemplari francesi o russi del romanzo contemporaneo “per irrobustire le proprie facoltà di narratrice con l’ostinato proposito di divenire scrittrice epica” (G. Bellonci).
La lettura in età adolescenziale del Boccaccio, del Tasso e del Goldoni, del Manzoni, e in età giovanile di V. Hugo, Balzac, Verga, Fogazzaro, Dumas ed altri, contribuì a creare dapprima dipendenza dai modelli prestigiosi cui si ispirava e in seguito, un certo disordine nella sua cultura, come si osserva dai giudizi resi sull’opera di innumerevoli Autori, che ebbero, comunque, grande influenza sulla sua scrittura.
Dice di Eugenio Sue, maestro di Dostojevkij, “ quel gran romanziere glorioso o infame, secondo i gusti, ma certo molto più atto a commuovere l’anima poetica di un’ardente fanciulla”. Del Cavallotti dice: ”è il più grande poeta contemporaneo d’Italia”.
La Deledda scriveva poesie sotto l’influsso dei poeti minori dell’epoca, entrati nel vasto e arruffato mondo delle sue conoscenze. Si disperava:”non avrò mai il dono della buona lingua italiana”.
La produzione letteraria in merito al folklore sardo ci ha dato una notevole raccolta di leggende e delle costumanze della Barbagia ed ha permesso all’Autrice di entrare in sintonia con il popolo, con gli oppressi dalle regole morali e dal fato. Tutti i suoi personaggi entrano in questo girone di perdizione e di espiazione: ”l’anima umana pecca, ma nel peccato stesso c’è il castigo”.
Notorietà nazionale le venne dopo che il critico Ruggero Bonghi ebbe scritto la prefazione al romanzo “Anime oneste” (Milano, 1895); “il romanzo si costruisce sulle vicende dei parenti e servi più vicini, in una trasposizione fantastica immersa in un paesaggio che aprì alla sua animai larghi orizzonti d’infinito” (Goffredo bellonci); ma il primo romanzo a decretarle successo e riconoscimenti fu ”La giustizia” (Torino 1899), in cui abbandona in parte gli schemi narrativi della prima giovinezza e raggiunge forte profondità e impegno. Vi compare una vera passione morale, cupe atmosfere di colpa. Il rifarsi al mondo sardo non significa, in questa fase, adesione ai moduli del romanzo verista originatosi in Italia con le opere di Capuana e Verga, nè la descrizione di un mondo provinciale delle ragioni economiche della vita umana, bensì una visione lirica e fiabesca del paesaggio e dell’ambiente all’interno del quale si agitano le passioni e i sentimenti dei personaggi, immersi in vicende contraddittorie che preannunciano dolorose espiazioni e vani tormenti.
Gli aspetti materiali sono sfondo di un’ostinata evocazione di psicologie tormentate, incarnate in personaggi schiacciati dal dubbio morale e consumati da lunghe e morbose preoccupazioni. Questi aspetti sono presenti in “Elias Portulo” (Torino, 1903).
Nella descrizione dei personaggi e degli eventi, la Deledda esercita una notevole competenza ad entrare nelle pieghe più intime dell’animo umano, dando forza alla tradizione decadente dell’epoca letteraria. La sua tenacia morale era dono della sua terra. Forse quel mondo non era riconoscibile dai sardi perché trasfigurato dall’immaginazione della scrittrice; ma è sarda la passione di colei che cerca di esprimere in forme epiche il proprio spirito e che ricrea la propria terra per dare un luogo non troppo distante e solitario ai personaggi dei suoi romanzi e ai loro drammi umani.
Il sentimento religioso, contribuì ad affinare la sensibilità dell’Autice ed entrò largamente nell’intimità dei pesonaggi: ”Il giudizio universale è sulla terra a tutte le ore … Dio non è il dio dei morti, è il Dio dei viventi…è detro di noi…”
Trasferitasi a Roma nel 1898 pubblicò un gran numero di romanzi e di racconti, alcuni di scarso rilievo letterario, altri di grande successo (Cenere, La via del male, L’edera, Il nostro padrone, Le colpe altrui, Marianna Sirca) e il famoso “Canne al vento” (Milano 1913) che le valse il premio Nobel. In questa opera l’espiazione della pena sfuma in accenti fiabeschi sullo sfondo di paesaggi popolati da spiriti, di paesi in rovina, di vecchie famiglie chiuse in un cupo orgoglio. Il mondo poetico diventa sempre più ampio e vi subentra l’attenzione alle nuove classi sociali. A Roma fu anche in contatto con sceneggiatori e registi per la traduzione in opere teatrali o filmiche, delle sue narrazioni, specialmente novelle e racconti.
“Cosima”, opera postuma, rivela il turbamento e i pensieri della protagonista malata di cancro: qui Grazia Deledda narra i suoi stessi tormenti, la malattia che la condusse alla morte nel 1936. Chi fu allora questa illetterata letterata? Quanto e quale amore per la scrittura la spinse alle sfide di cui si è scritto? Una donna tenace, testimone del suo tempo, innamorata profondamente della propria terra, lettrice attenta dell’animo dei suoi personaggi e figlia di un’appartata lontananza dal Continente.
“Aveva una carnagione bianca e vellutata, bellissimi capelli neri lievemente ondulati, e gli occhi grandi, a mandorla, di un nero dorato a volte verdognolo con la grande pupilla appunto di razza camitica che un poeta latino chiamò doppia pupilla, di un fascino passionale irresistibile”.
Questa la descrizione di Cosima, il suo “io” allo specchio, mentre fuggiva la vita e inaridivano le suggestioni della sua terra.
Tra il 1943 e il 1955 le opere di Grazia Deledda furono raccolte in un unico volume.
Marisa Cossu
Libri consultati:
- Panerai,Scrittori italiani dal Carducci al D’Annunzio
- Deledda, i Nobel, 1926, Ed.UTET
- Bellonci, in “L’isola” del 13- 10-1937
- Flora, Dal Romanticismo al Futurismo, Milano 1925
Grazie a te per l’interesse e il gentile commento.
"Mi piace""Mi piace"