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LA BELLEZZA ABITA QUI

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LA BELLEZZA ABITA QUI 

 

 

“Vieni dal cielo profondo o esci dall’abisso,

Bellezza? Il tuo sguardo, divino e infernale,

dispensa alla rinfusa il sollievo e il crimine,

ed in questo puoi essere paragonata al vino”.

( C. Baudelaire, Inno alla bellezza)

 

Abita tra noi la Bellezza: se il Contemporaneo non riesce a coglierne lo splendore è perché egli è immerso nella nebbia rarefatta dell’esistenza, nelle miriadi di manipolazioni dell’esperienza in cui sono coinvolti l’Arte, la Natura e il “sentire”. Gli inganni sono messi in atto  dagli individui e dai gruppi, nei loro rapporti liquidi, nel loro mutismo, nella loro corsa sfrenata verso la bulimia del possesso. Se il Contemporaneo, il Tecnologico, non riesce a intravedere un barlume di bellezza nel “cielo profondo”, o “nell’abisso” da cui essa origina, è perché l’uomo non abita più qui, è altrove disperso.

Ma la Bellezza non si pone al di sopra dell’umanesimo, pervicace resta quasi invisibile nella realtà esperienziale. È qui, non abbandona l’umanità fiaccata da problemi e da dubbi, è qui con il suo potere liberatorio.

 La Bellezza, come l’essere, si cela dietro un velo, non vuol cercare, ma essere cercata; per vederla bisogna sentirne la necessità, fermarsi ad osservare, respirare, aprire l’animo e la mente a tutto ciò che esprime vita, morte, gioia, dolore, rabbia e compassione; pronti a cogliere e a godere di tutte le esperienze estetiche emotivamente pregnanti, incontrate per il solo fatto di essere senzienti.

Nella corsa egotica, senza riposo, senza lentezza e senza limiti, il Contemporaneo perde il gusto del bello e della scoperta, vive una deprivazione emotiva, in una forma di alienazione nel degrado delle città, negli antichi ipogei dimenticati, nelle necropoli dissacrate, nelle periferie del pensiero abbandonate nell’atto di cogliere un piacere fine a se stesso, consumistico.

 Ecco apparire sempre più aggressivi i segni della “bruttezza”, nella grande illusione verso cui l’uomo è inesorabilmente diretto. Cresce il male del vivere. La Bellezza e il Contemporaneo rischiano di diventare gli opposti di una struttura cementificata che oscura i sensi, li mortifica, svia la percezione alterando i processi cognitivi. La percezione del “bello”è un fatto cognitivo: ha a vedere con il complesso “ingranaggio cuore-cervello” ; i segnali sensoriali non sono adatti a ottenere percezioni immediate e certe; per vedere gli oggetti si rende necessario che sia l’intelletto a formulare congetture quindi l’occhio ha perso la consolidata  funzione di macchina fotografica.

  Giovani generazioni non hanno memoria della bellezza, e se a volte provano un senso di stupore di fronte ai sintomi del bello che, nonostante tutto si manifestano, ciò avviene perché la Bellezza da sempre abita qui, nell’armonia e nella disarmonia, nell’imperfezione e nella pluralità delle cose che si manifestano in un abbraccio universale, in un lampo di luce; ciò avviene anche nell’era tecnologica, in tempi in cui l’abuso delle sollecitazioni visive e informative disabituano l’individuo a selezionare nel caos ciò che realmente interessa ed ha valore umano, comunicativo – espressivo.

 Accorgersi della bellezza è anche un problema formativo? Si può attrarre alla bellezza, attraverso l’insegnamento o mediante la proposizione vissuta di esempi e modelli?

 Si può ancora indicare all’uomo una via interiore ed esperienziale e spirituale verso la bellezza?

Affidiamo l’idea del bello a nuovi studi e scoperte nel campo di recenti ottiche multidisciplinari, le antiche diatribe alla storia della filosofia e nella classicità strutturale del nostro pensiero, perché la ricerca mai finirà di affascinarci e stupirci; né sappiamo dove ci condurrà, nè se si confronterà con l’idea dell’infinito.

La bellezza abita nell’uomo, nella sua costituzione neurobiologica, nelle zone del cervello deputate ad accendersi all’esposizione alla bellezza. L’attività cerebrale, indagata con sempre più precisi strumenti tecnologici (Tac, Pec, etc.) , mostra empatia per i prodotti dell’Arte, anche di quella astratta . La scoperta dei neuroni specchio, ha convinto scienziati ed artisti, soprattutto per quanto riguarda l’arte visiva a formulare ipotesi di collaborazione, così che Arte e Scienza non siano più contrapposte ma inizino un processo collaborativo di ricerca delle costanti del “bello”.

Un atto cognitivo è sempre anche un atto creativo: la visione avviene dall’interno. È la neuroestetica la nuova scienza che studia i rapporti tra Arte e cervello aprendo una finestra su questo specifico argomento. Cos’è che piace, emoziona, commuove e stupisce larga parte di una comunità nelle arti visive e negli altri linguaggi dell’Arte’? Dove e quali sono i sintomi della Bellezza? L’artista è di fatto, il miglior neurologo di se stesso”: à la mente la zona in cui la scienza si connette all’Arte, parte costitutiva della sua esistenza; sono qui i messaggi del “bello” che l’uomo  riconosce  nell’empatia e i sintomi saranno sempre virali: la Bellezza è una forma di poiesis.

 

“E non farà rumore la Bellezza,

forse in silenzio e pura,

sarà soffio di pioppo alla mia porta,

una lanterna fioca nella notte,

un bisbiglìo di petali dischiusi

al davanzale di una gioia breve”.

 

Marisa Cossu

 

Letture:

  1. B.Missana, Verso una nuova critica d’Arte, Sentieri Meridiani Edizioni 2015
  2. N.Goodman, I linguaggi dell’Arte, Il Saggiatore,2008, Milano
  3. Semir Zeki, La visione dall’interno, Bollati Boringhieri, 2007 Torino

 

“Grazia Deledda” di Marisa Cossu. Rivista letteraria”Euterpe 27″ di Lorenzo Spurio

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http://Grazia Deledda

“Io son pallida e bruna.

Un amor fiero – svela l’oscura mia pupilla mesta …”

Generazioni di giovani contemporanei si sono forse imbattuti, nel corso degli studi, solo superficialmente, e per breve tempo, nella figura e nell’opera della volitiva scrittrice sarda, prima e unica donna italiana premiata con il Nobel della letteratura nel 1926 per il romanzo “Canne al vento”.

La lettura delle sue opere dà l’idea della difficile condizione delle donne fino ai giorni d’oggi e delle immani sfide che ciascuna ha dovuto affrontare per affermare la propria dignità e ottenere le pari opportunità sociali e civili.

L’Autrice nacque a Nuoro nel 1871. La sua vita, appartata all’interno di un piccolo paese della Barbagia, la consuetudine al rispetto delle consolidate tradizioni culturali proprie dell’ambiente di vita, le limitazioni al desiderio di volare lontano imposte dalle convenzioni dell’epoca, fecero della Deledda una voce solitaria e contrastata nel panorama letterario sardo e nazionale, sia in quanto donna, sia perché completamente assente ai fermenti culturali e sociali del periodo storico.

Di nobile ed abbiente famiglia, le furono tuttavia preclusi gli studi cui aspirava fin da bambina e, terminata la quarta elementare, fu autodidatta mediante la lettura dei più importanti scrittori del panorama europeo.

Subì quindi i limiti e l’arretratezza non solo dell’epoca coeva ma anche quelli imposti da una cultura primitiva, priva di affetti, isolata e padronale; tuttavia è in questo ambiente familiare e culturale che la fanciulla iniziò a maturare i propri sogni, il piacere della scrittura tutta segnata dalle esperienze delle forti passioni evocate dai personaggi del suo paese di cui, tra verità vissute e verità immaginate, narrava i turbamenti, le vendette e le più aspre tensioni, nelle relazioni umane e in quelle d’amore.

La Sardegna, isola di ancestrale bellezza, archetipo di tutti i luoghi, era ed è sotto alcuni aspetti, una terra senza tempo dove si consumavano i drammi narrati dalla Deledda.

Amante della letteratura, voleva emergere, guadagnarsi da vivere in modo autonomo con le sue opere, ma restava comunque una “illetterata” per l’insufficiente preparazione scolastica. Nei suoi brani narrativi spesso compariva in modo prepotente l’espressione dialettale che contribuiva a colorare i personaggi. La sfida alla società sarda fu sicuramente dura, ma anche in Continente non fu mai apprezzata abbastanza. Perfino al Nobel fu appellata dai giudici “bella signora”, all’atto dell’attribuzione del prestigioso premio.

La poetica dell’Autrice, colma di sentimenti intensi e selvaggi, si avvale di un’etica patriarcale mossa dalla presenza del fato, preda di forze superiori nelle quali le fragili e dolenti vite degli umani sono come “ canne al vento”. La Deledda sembrò credere, come i naturalisti, in un mondo oggettivo, volle essere oggettiva mentre in realtà rappresentava spesso se stessa nelle donne create dalla sua fantasia

L’arte di Grazia Deledda non è certo inconsapevole, primitiva, senza radici di cultura. Lo testimoniano le sue avide letture di fanciulla, che si andava formando alla scuola del naturalismo italiano, cui seguirono i più ardui esemplari francesi o russi del romanzo contemporaneo “per irrobustire le proprie facoltà di narratrice con l’ostinato proposito di divenire scrittrice epica” (G. Bellonci).

La lettura in età adolescenziale del Boccaccio, del Tasso e del Goldoni, del Manzoni, e in età giovanile di V. Hugo, Balzac, Verga, Fogazzaro, Dumas ed altri, contribuì a creare dapprima dipendenza dai modelli prestigiosi cui si ispirava e in seguito, un certo disordine nella sua cultura, come si osserva dai giudizi resi sull’opera di innumerevoli Autori, che ebbero, comunque, grande influenza sulla sua scrittura.

Dice di Eugenio Sue, maestro di Dostojevkij, “ quel gran romanziere glorioso o infame, secondo i gusti, ma certo molto più atto a commuovere l’anima poetica di un’ardente fanciulla”. Del Cavallotti dice: ”è il più grande poeta contemporaneo d’Italia”.

La Deledda scriveva poesie sotto l’influsso dei poeti minori dell’epoca, entrati nel vasto e arruffato mondo delle sue conoscenze. Si disperava:”non avrò mai il dono della buona lingua italiana”.

La produzione letteraria in merito al folklore sardo ci ha dato una notevole raccolta di leggende e delle costumanze della Barbagia ed ha permesso all’Autrice di entrare in sintonia con il popolo, con gli oppressi dalle regole morali e dal fato. Tutti i suoi personaggi entrano in questo girone di perdizione e di espiazione: ”l’anima umana pecca, ma nel peccato stesso c’è il castigo”.

Notorietà nazionale le venne dopo che il critico Ruggero Bonghi ebbe scritto la prefazione al romanzo “Anime oneste” (Milano, 1895); “il romanzo si costruisce sulle vicende dei parenti e servi più vicini, in una trasposizione fantastica immersa in un paesaggio che aprì alla sua animai larghi orizzonti d’infinito” (Goffredo bellonci); ma il primo romanzo a decretarle successo e riconoscimenti fu ”La giustizia” (Torino 1899), in cui abbandona in parte gli schemi narrativi della prima giovinezza e raggiunge forte profondità e impegno. Vi compare una vera passione morale, cupe atmosfere di colpa. Il rifarsi al mondo sardo non significa, in questa fase, adesione ai moduli del romanzo verista originatosi in Italia con le opere di Capuana e Verga, nè la descrizione di un mondo provinciale delle ragioni economiche della vita umana, bensì una visione lirica e fiabesca del paesaggio e dell’ambiente all’interno del quale si agitano le passioni e i sentimenti dei personaggi, immersi in vicende contraddittorie che preannunciano dolorose espiazioni e vani tormenti.

Gli aspetti materiali sono sfondo di un’ostinata evocazione di psicologie tormentate, incarnate in personaggi schiacciati dal dubbio morale e consumati da lunghe e morbose preoccupazioni. Questi aspetti sono presenti in “Elias Portulo” (Torino, 1903).

Nella descrizione dei personaggi e degli eventi, la Deledda esercita una notevole competenza ad entrare nelle pieghe più intime dell’animo umano, dando forza alla tradizione decadente dell’epoca letteraria. La sua tenacia morale era dono della sua terra. Forse quel mondo non era riconoscibile dai sardi perché trasfigurato dall’immaginazione della scrittrice; ma è sarda la passione di colei che cerca di esprimere in forme epiche il proprio spirito e che ricrea la propria terra per dare un luogo non troppo distante e solitario ai personaggi dei suoi romanzi e ai loro drammi umani.

Il sentimento religioso, contribuì ad affinare la sensibilità dell’Autice ed entrò largamente nell’intimità dei pesonaggi: ”Il giudizio universale è sulla terra a tutte le ore … Dio non è il dio dei morti, è il Dio dei viventi…è detro di noi…”

Trasferitasi a Roma nel 1898 pubblicò un gran numero di romanzi e di racconti, alcuni di scarso rilievo letterario, altri di grande successo (Cenere, La via del male, L’edera, Il nostro padrone, Le colpe altrui, Marianna Sirca) e il famoso “Canne al vento” (Milano 1913) che le valse il premio Nobel. In questa opera l’espiazione della pena sfuma in accenti fiabeschi sullo sfondo di paesaggi popolati da spiriti, di paesi in rovina, di vecchie famiglie chiuse in un cupo orgoglio. Il mondo poetico diventa sempre più ampio e vi subentra l’attenzione alle nuove classi sociali. A Roma fu anche in contatto con sceneggiatori e registi per la traduzione in opere teatrali o filmiche, delle sue narrazioni, specialmente novelle e racconti.

“Cosima”, opera postuma, rivela il turbamento e i pensieri della protagonista malata di cancro: qui Grazia Deledda narra i suoi stessi tormenti, la malattia che la condusse alla morte nel 1936. Chi fu allora questa illetterata letterata? Quanto e quale amore per la scrittura la spinse alle sfide di cui si è scritto? Una donna tenace, testimone del suo tempo, innamorata profondamente della propria terra, lettrice attenta dell’animo dei suoi personaggi e figlia di un’appartata lontananza dal Continente.

“Aveva una carnagione bianca e vellutata, bellissimi capelli neri lievemente ondulati, e gli occhi grandi, a mandorla, di un nero dorato a volte verdognolo con la grande pupilla appunto di razza camitica che un poeta latino chiamò doppia pupilla, di un fascino passionale irresistibile”.

Questa la descrizione di Cosima, il suo “io” allo specchio, mentre fuggiva la vita e inaridivano le suggestioni della sua terra.

Tra il 1943 e il 1955 le opere di Grazia Deledda furono raccolte in un unico volume.

Marisa Cossu

Libri consultati:

  1. Panerai,Scrittori italiani dal Carducci al D’Annunzio
  2. Deledda, i Nobel, 1926, Ed.UTET
  3. Bellonci, in “L’isola” del 13- 10-1937
  4. Flora, Dal Romanticismo al Futurismo, Milano 1925

Grazia Deledda

L’UTOPIA POETICA di Marisa Cossu

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MARCO DEI FERRARI: “L’UTOPIA POETICA NEL “PROGETTO” DI MARISA COSSU”

 

 

Marco Dei Ferrari, collaboratore di Lèucade

 

COMMENTO DI MARCO DEI FERRARI AL SAGGIO SULLA POESIA DI MARISA COSSU PUBBLICATO SU LEUCADE IL MESE DI MAGGIO COME DA LINK

 

https://nazariopardini.blogspot.it/2018/05/marisa-cossu-per-un-progetto-di-nuova.html

 

 

L’UTOPIA POETICA NEL “PROGETTO”

di

MARISA COSSU

 

Marisa Cossu in un pregevole prospetto-progetto analitico ha ricercato un “senso” al “fare” poetico contemporaneo e ci offre spunti di ragionamento molto intensi e stimolanti.

Ad esempio: le ricerche “neuro” in atto; il rapporto artisti-scienziati in divenire; il correntismo-frazionismo dilagante; il dominio irreversibile del mercato che uccide la libertà creativa dei poeti (artisti); il declino dei “temi” fondanti e del linguaggio (confuso) ancora lontano da un “nuovo” tracciare poetico…

Tali considerazioni sono rilevanti per il secolo XX come la compatibile assonanza tra principi socio-politico dominanti e risposta poetica sino alla barbarie e all’orrore del martirio di intere popolazioni.

In effetti dopo il 1945 (così Adorno sembra esprimersi) si stenta a trovare la via artistica della libertà, dell’amore, della bellezza, ecc. e si entra in un intimismo manieristico e micro-letterario ovvero in un rifugio privato e personalizzato che rifiuta l’oggettività della realtà circostante dei fattori storici-socio/culturali-economici.

La sequenza successiva e l’avvento del tecno (intelligenza artificiale,robotica, ciberspazio, ecc. ecc.)costituisce la negazione finale dell’espressività libera e umanistica da qualsiasi punto di vista.

Le persone e le cose si smarriscono nel digitale e il web domina la scena.

Non basta il “travaso” poetico di Contini, né bastano gli “indicatori” di Domenici (citati dalla Cossu): tutto il 900 poetico viene travolto dal dilagante potere della tecnetronica mediatica: né dolore, né amore possono resistere al tornado, perché l’essere umano trasformandosi progressivamente perde valore e consistenza e rinnega quindi i valori-fondatori.

Non basta la tradizione, né lo “sperimentalismo” frenetico denunciato da Nazario Pardini, né il “volo” perduto del poeta oltre il confine nel tentativo estremo di attirare in versi il sentire e la condivisione di sentimenti nobili, ma in crisi. Neppure è sufficiente la capacità dell’attività poetica di cambiare il mondo come sostiene Octavio Paz. L’empatia tra artista-opera-fruitore si riduce ad un’espressività pubblicitaria ingoiata dai   mass-media tecno: nulla di più.

Oggi la “poesia” è solo un’indicazione linguistica, un esercizio schematicamente vuoto che non cambia nulla, ma subisce la globalità del tutto e Linguaglossa con il suo coraggioso lodevole obiettivo (il grande progetto) si trasforma in filosofo di un’ontologia estetica che rimane confinata negli ultimi residuali “umani” operatori di arte letteraria, in attesa della “rivoluzione” definitiva che robot e avatar (immagini in rete) umanoidi tradurranno in estinzione nella “realtà virtuale” di valori e memorie emozionali.

Il futuro è iniziato. Comunque sia rimane interessante il “progetto” (a mio avviso senza speranza) di Marisa Cossu che ritengo “difensore” in trincea estrema di stimoli comunicanti già peraltro condannati dal XXI°secolo irreversibilmente. “Rifare l’uomo” è l’appello iniziale del “progetto”, ma di quale “uomo” stiamo parlando? Di quale prospettiva etica o di quale interiorità discutiamo nel mondo dei robot super-intelligenti, dei post-umani con banchi di memoria caricati nel cervello e impianti per affinare i sensi eliminando i geni letali?

Si prevede che la nostra “intelligenza biologica” sia solo un fenomeno transitorio nell’evoluzione universale e che entro il 2100 sarà predominante la presenza di robot forse non “separati” da noi, ma connessi. Tutto ciò dimostra che l’interiorità quale oggi concepiamo, si relega in mini-dimensioni marginali destinate alla scomparsa.

Il futuro è iniziato; la gestualità interiormente creativa come la “poesia” (così oggi la interpretiamo) è finita.

 

Per un progetto di “nuova” Poesia

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martedì 22 maggio 2018

MARISA COSSU: “PER UN PROGETTO DI “NUOVA” POESIA”

 

 

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“ALLA VOLTA DI LEUCADE”

Marisa Cossu, collaboratrice di Lèucade

 

Per un progetto di “nuova” poesia

 

“Rifare l’uomo, questo il problema capitale.

Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scale della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo della speculazione è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno”.

(Salvatore Quasimodo)

                                                  

Chi sono i poeti? Che cosa è la Poesia?

A che cosa serve la Poesia?

Abbiamo bisogno della Poesia nell’era tecnologica?

 

Tali domande non possono trovare risposta se non dalla definizione di “poesia” nel cui ambito si prospettino sia la figura, il ruolo e la funzione dei poeti, sia le basi di una “nuova” poesia. Essa deve essere ripensata in una prospettiva etica capace di sconfiggere la solitudine e l’incomunicabilità dell’era tecnologica. La poesia deve quindi esplicare una funzione comunicativa forte ed empatica fuori da schemi precostituiti, ma strettamente collegata alla tradizione letteraria che i poeti hanno lasciato all’umanità come segno spirituale, forza della parola e fatto estetico. Molti critici e poeti hanno dedicato alla poesia affascinanti attribuzioni: atto di pace, corrimano cui appoggiarsi, atto d’amore, faro, etc.; ma da qualsiasi angolo la si guardi la poesia resta centrale nella vita umana, anzi ne costituisce il cuore. Ninnj Di Stefano Busà dice che la poesia “origina dal complesso ingranaggio cuore-mente”, affermazione che spiega le basi neurobiologiche del substrato in cui nasce il fatto poetico. La neuro-estetica e le neuroscienze, fissano un rapporto cervello-psiche ed opera d’arte ora apprezzabile e misurabile mediante indagini ottenute con strumenti tecnologici sempre più precisi (tac, pec, etc.). Tali indagini registrano l’attivazione delle zone del cervello deputate a segnalare le emozioni; infatti, posti di fronte ad un’opera d’arte, si attivano nel fruitore, zone del cervello in cui i neuroni specchio consentono di stabilire quali “sintomi” siano costanti in questa relazione. Certo siamo nel campo di una ricerca avanzata; ma lo stesso Kandisnsky, in “Lo spirituale nell’Arte”, afferma che “l’artista è il miglior neurologo di se stesso”. Le risposte alle domande iniziali di questa riflessione, ricercate da critici e poeti, sia pure in un lavoro che inizia ad essere interdisciplinare tra scienziati ed artisti, sono tuttavia vaghe e talvolta confuse: nessuno sa che cos’è la poesia e, di conseguenza, è quasi impossibile stabilire il ruolo dei poeti, il loro compito. Dal momento che si riconoscono alla tradizione letteraria i fondamenti e il lascito incommensurabile dei nostri predecessori, su tale solco è necessario muoversi per innovare e costruire originali progetti di poesia. Parlo di progettualità più che di un dannoso correntismo (o manierismo) che finirebbe per svuotare di senso i pensieri, le parole, le emozioni, cioè i contenuti cognitivi e spirituali da cui origina la poesia. Spesso leggiamo elenchi di parole ad effetto in composizioni vuote di comunicazione ed empatia; altre volte gli autori compongono seguendo i rigidi schemi della metrica tradizionale, perdendo di vista l’onda delle emozioni, il canto che fluisce liberamente dall’interiorità; altre volte ancora si cade in un simbolismo accentuato che non può essere considerato metafora o in un realismo da lista della spesa, un frammentismo opportunistico. La poesia può essere anche in tutte queste manifestazioni, così come si ritiene che essa, la bellezza, l’amore, siano il cuore pulsante della vita; tuttavia, cresce in maniera esponenziale la produzione poetica in un mondo editoriale consumistico e poco attento: sui social imperversano poeti ed autori di ogni tipologia; in modo inversamente proporzionale, scarseggia la qualità delle proposte concettualmente e stilisticamente fondate. Scrive Paul Valéry; “il mercato universale ha prodotto oggi un’arte più ottusa e meno libera”. Ciò avviene perché è mutata la società, il modo di comunicare, le relazioni interpersonali; si sono persi punti di ancoraggio, il linguaggio “meticciato” si è sostituito gradualmente alla lingua italiana e il “sentire” è inaridito dall’indifferenza, la bruttezza, la bulimia di possesso. Del resto il poeta è “interlocutore privilegiato” e testimone del suo tempo, quindi non può alterare il rapporto con il pubblico, un rapporto complesso condizionato da un insieme di fattori storici, socio-culturali, economici. Tale rapporto si fa via via sempre più sfuggente, a mano a mano che la società diviene più complessa e“liquida”. Nei primi decenni del secolo XX, alla crisi dei regimi liberali corrispose un generale disorientamento ideologico. Alla perdita di identità molti letterati ed artisti reagiscono accentuando la propria diversità. Si prediligono linguaggi aggressivi tendenti a sottolineare l’eccezionalità dell’esperienza artistica. All’opposto, intellettuali organici al potere aderiscono al momento storico. Nel secondo dopoguerra, il poeta si fa carico di una coscientizzazione del linguaggio poetico: dopo gli orrori dello sterminio di intere popolazioni, dopo il decadimento dell’umanesimo, dopo la totale disumanizzazione, è ancora possibile che la poesia viva?

Mi piace citare Theodor W. Adorno:

“Il dolore incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare. Perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia … L’Arte che non è più affatto possibile se non riflessa, cioè presa se non come problema, deve da sé rinunciare alla serenità. E la costringono innanzitutto gli avvenimenti più recenti, il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena”.

Ammesso che la poesia alberghi ancora nel mondo tecnologico, paradossalmente caratterizzato da scarsa comunicazione e da grande solitudine, dobbiamo riflettere sui motivi dell’esperienza creativa del pensiero e del linguaggio che viene universalmente considerata necessaria perché connaturata all’essenza dell’uomo. La parola riacquista un senso solo nella chiarezza del suo valore semantico, se aderisce al cuore di chi la compone in versi o in prosa, di chi la pronuncia per nominare cose, persone, istituzioni, cioè se sa volare oltre la presenza dell’oggetto, facendosi essa stessa oggetto, per carpire tutte le sfumature che colorano la vita e fanno intravedere in modo profetico lo sconosciuto fine verso cui si corre senza tregua. La Poesia, come l’essere, si cela dietro un velo in attesa di essere scoperta ed amata spingendo verso una perpetua ricerca cognitiva e spirituale oltre che estetica e linguistica. La fortuna goduta dall’opera di Dante è dovuta alla sua forza di incidere nell’immaginario collettivo, comunicando parole e figurazioni ancora presenti nella tradizione contemporanea. Come ha sostenuto G. Contini nel suo saggio “Un’interpretazione di Dante, 1965”, è segno della sua “traducibilità” da un sistema culturale ad un altro, da un sistema poetico ad un altro. Ci insegna che ogni epoca letteraria appartiene ad una tradizione linguistica e culturale da riconoscere come propria e a cui rifarsi. Da dove ripartire perché la poesia del nostro tempo sia aderente ai valori fondamentali umani? Il Prof. Domenici in uno dei suoi saggi “La poesia tra etica ed estetica”, sostiene che un progetto di nuova poesia nel tempo della crisi non può trascurare alcuni elementi cardini che consistono: “1) nell’alterità, ossia l’apertura all’altro per dirla con Levinàs, e al proprio tempo; 2) nella forza della parola poetica e del linguaggio; 3) nell’autentica espressione e trasfigurazione della condizione esistenziale umana”. Da questi punti essenzialmente umanistici, ma anche da tutta la poesia del ‘900, deve venir fuori la poesia dell’era tecnologica, una poesia che lenisca il dolore, voli alta con parole comprensibili e oneste e accosti l’uomo alla bellezza, lo spinga ad andare “più in là”; una poesia capace di comunicare “il sentire”, che scovi nell’uomo e nel poeta quella semplice classicità che incidendo sulle coscienze, attiva sentimenti di amicizia e condivisione. Oltre ad una poesia in versi libera affidata alla modulazione musicale delle parole e del verso, esiste oggi una poesia neo-umanistica, anche formulata in modo classico con l’uso della metrica, la cui conoscenza unita allo studio   della tradizione letteraria, possa ancora contenere ed esprimere il linguaggio del nostro tempo. La poesia è l’habitat ideale della lingua coniugata all’immaginazione che in un processo interiore, dal “guardare dall’interno”( Semir Zeki), consente l’empatia tra l’artista, la propria opera e tra essa e il fruitore. Così la poesia si fa conoscenza e come dice Octavio Paz (premio Nobel 1990) , “È operazione capace di cambiare il mondo. Attività poetica rivoluzionaria per natura, esercizio spirituale, metodo di liberazione interiore”. La “letteratura dell’assenza”, come fu chiamato il rifugio degli intellettuali fuori dai problemi sociali, l’evasione pura, l’Aventino della letteratura, non si addice ai poeti, non è una forma di solitudine ma di aristocratico rifiuto. Perciò, nel secondo dopoguerra fioriscono una letteratura e una poesia attente ai problemi sociali. Molte sono le esperienze estreme. Ma tutta l’innovazione muove “dalla svolta linguistica” già iniziata nella seconda metà dell’ottocento in tutti i settori dei linguaggi dell’arte nel segno di una rottura epocale con la tradizione. A parere di molti critici “la svolta” fu l’input del rinnovamento sviluppatosi nel ‘900. Questa continuità ancora oggi è un ancoraggio alla meravigliosa tradizione culturale del nostro Paese che recepisce la novità e le influenze europee nel seno di una riflessione accorata su tutta la poesia giunta fino a noi. Giorgio Linguaglossa, in “Critica della ragione sufficiente” affronta il problema della costruzione di un “grande progetto” per giungere alla formulazione di una nuova ontologia estetica (NOE) con la proposta di una ripartenza da Pasolini e Montale, da dove “essi avevano lasciato la spugna” . Le poetiche del ‘900 possono essere considerate come una nuova metratura in cui collocare l’arte come “verità raggiunta o istituita”. L’arretratezza della poesia italiana è forse dovuta agli schematismi culturali dei poeti, alla cultura dominante e alla perdita delle ragioni per cui al linguaggio della nostra epoca non si è ancora riusciti a coniugare un nuovo pensiero poetico. La crisi consiste proprio nel tracciato spesso insuperabile di un confine netto da cui muovere o da cui prendere le distanze. Nazario Pardini, nella nota critica all’opera ”Negazioni” di Edda Conte, esclude che la poetica dell’Autrice possa essere letta in funzione della NOE, ma piuttosto come ricerca di innovazione nella presenza più vicina e sonora delle cose e quindi della vita. Scrive il Pardini: “Oggigiorno c’è una nuova tendenza poetico – letteraria che cerca di farsi spazio, ma destinata a sparire presto come i tanti sperimentalismi che hanno giocato un ruolo marginale nella cultura dell’altro secolo”. Oggi la tirannia del mercato non è meno attrattiva dei rifugi del passato e i poeti si muovono in uno spiccato individualismo che esprime il malessere di ciascuno in situazioni di intensa soggettività alla ricerca del nuovo. Da questo atteggiamento si può immaginare l’approdo ad un atto di conoscenza e di amore.”Solo chi ama conosce”, scrive E. Morante, e su queste basi cognitive e di aderenza al linguaggio vivo, di amore per la vita, si può configurare la nuova poesia. Il carattere dialogico della parola poetica contiene in sé la volontà di aprire all’altro per condurlo alla riflessione, trasmettergli il valore della bellezza espresso da ogni sentimento poetico onesto e vero. “Non vi è una particella di vita che non abbia poesia all’interno di essa” (G. Flaubert).

 

Testi consultati:

  • V. De Caprio, S. Giovanardi: “I testi della letteratura italiana”

Ed. Einaudi Scuola 1993

  • B. Missana: “Verso una nuova critica d’arte”

Ed. Sentieri Meridiani 2013

  • G. Linguaglossa: “Critica della ragione sufficiente”

Ed. Progetto Cultura 2003

Marisa Cossu

 

 

 

Pubblicato da nazariopardini a 09:15

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Non mi piacciono le faccine ( un saggio breve pubblicato sulla rivista “Euterpe” ) di Marisa Cossu

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“ Il cambiamento è l’unica cosa permanente,

l’incertezza è l’unica certezza”.

( Z. Bauman)

 

Considerazioni intorno alla cultura dell’era digitale

 

Non mi piacciono le “faccine”.

Meglio, non mi piace che se ne faccia un uso prevalente e indiscriminato nell’ambito della comunicazione ed espressione delle emozioni; forse è la mia anima psicopedagogica a mordermi dentro, quando osservo l’attuale stato delle cose nell’ambito dell’apprendimento e nell’esperienza digitale.

L’immagine banalizzata delle emozioni, cioè il pacchetto di espressioni grafiche semplificate, fruibile come categoria merceologica, sostituisce la ricerca dei segnali emotivi maturati all’interno della mente umana e limita la capacità di trovare gesti, linguaggi corporei, mimica, parole, appropriati e creativi con il necessario sforzo ideativo e congruenti al proprio modo di essere.

Le emozioni, il senso della bellezza, i sentimenti, originano dal rapporto cuore-cervello, dal complesso apparato neurobiologico che presiede alle attività cognitive: quando li troviamo già pronti all’uso, non si attivano le zone del cervello preposte, non vengono appresi come fatto cognitivo e relazionale; si riduce il processo emotivo, non si passa  per l’esperienza creativa, per il linguaggio, i linguaggi di contatto con il calore di chi ci emoziona (ad es. il volto della madre che parla e sorride al suo bambino, una carezza, uno sguardo corrucciato, una situazione di pericolo dettata da gesti concreti). La realtà delle emozioni è  indispensabile ad uno sviluppo equilibrato delle facoltà umane. Così come il processo di apprendimento della letto-scrittura è un percorso interdisciplinare tra varie capacità e competenze individuali, psichiche e sociali, anche l’educazione a coltivare i propri sentimenti ed inclinazioni positive, controllando sempre meglio quelle negative, deve essere attuata nell’utilizzazione delle “due culture” che si sono sviluppate nell’era tecnologica.

La cultura e la tecnologia influenzano le nostre vite molto di più di quanto mai avessero fatto prima: la “frequentazione culturale classica” (libri, giornali, cinema, teatro, spettacoli musicali, biblioteche, musei, siti archeologici) e quella moderna digitale, costituiscono il capitale umano di un Paese, generano e nutrono il sentimento di appartenenza, di inclusione sociale e di partecipazione cognitiva, politica, civica e interiore delle persone al proprio tempo. Nonostante le grandi opportunità offerte dai media, sappiamo che gran parte della popolazione vive una specie di emarginazione paragonabile all’analfabetismo del dopoguerra: gli anziani spesso non possiedono il pacchetto delle conoscenze di accesso alla comunicazione digitale e decodificano con difficoltà la pluralità di messaggi e codici provenienti dal web. Allo stesso tempo i bambini e i giovani rischiano l’overdose degli stimoli in tale campo, per lo più senza guida. E veniamo ancora alle “emoji”.

L’uomo si avvia a diventare muto in una realtà che banalizza ogni sensazione quasi che le emozioni debbano restare chiuse nella solitudine dell’individuo mentre fuori vagano nell’etere quelle prefabbricate da cogliere nell’attimo fuggente. Secondo il sociologo Zygmunt Bauman, la rivoluzione digitale contribuisce a rendere più fragili i legami affettivi. In “Amore liquido” sostiene che il networking  “promette una navigazione sicura (o quantomeno non letale) tra gli scogli della solitudine, tra un irreparabile distacco e un irrevocabile coinvolgimento”.

La tecnologia ha accelerato in modo sensibile le trasformazioni del vivere quotidiano: spesso il pubblico e il privato della persona non hanno in Internet una linea di confine ben marcata; questo fenomeno implica incertezza e dispersione tra i legami virtuali e una realtà che diventa via via obsoleta. Cresce il gap generazionale.

Alcuni passaggi indicano le peculiarità del mondo digitale, secondo P. La Daga:

-reperimento compulsivo di informazioni;

-passaggio dalla comunicazione orale a quella scritta;

-dalla carta al tablet;

-illusione della privacy;

– essere localizzabili.

Si vive in un mondo quanto mai affollato ma silenzioso, in solitudine, sotto un controllo non percepito ma che agisce costantemente; ci si sente liberi, ma in realtà anche i presupposti della democrazia sono messi in discussione.

La prossimità virtuale rende le connessioni umane più frequenti ma più superficiali, brevi seppure intense e suggestive; sembra, secondo Z. Bauman, che la prossimità virtuale induca alla “separazione tra comunicazione e relazione”. Assorbito dalla ”prossimità virtuale” l’uomo, e quindi anche il bambino che mi sta a cuore, dedica minore tempo all’acquisizione e all’ esercizio di doti che l’approccio reale richiede. Tali doti vengono così dimenticate perché è meno impegnativo frequentarsi su Internet che trovare il tempo per lo scambio reale.

Ma che cosa è reale nella società tecnologica? Come educare le giovani generazioni a fruire delle meraviglie della tecnologia senza cadere nello shopping dei sentimenti?

Oggi gli spazi alla moda e molto disponibili sono Facebook, Twitter, e le foto su Istangram, quello che per le generazioni precedenti era il cinema. Su Fb i giovani di tutte le età si “denudano” perché pensano che la rete sia vasta e irraggiungibile, si disperdono, sono privi di “privacy” come fossero invisibili. Uno studio condotto da Danah Boyd giunge a queste conclusioni: “i giovani devono socializzare usando Fb per mancanza di altri spazi di ritrovo con i coetanei”.

Il mondo dei loro genitori è superato, la solitudine è più forte, la pressione scolastica dell’informatica è sempre più marcata e i metodi d’insegnamento ne fanno un uso smodato, prevalente. La rivoluzione digitale ha subito un certo degrado al passaggio del millennio: il world wide web è stato inondato da tecnologie di pessimo livello per promuovere una libertà radicale delle macchine più che delle persone e se ne sente parlare come di “cultura open”: commenti anonimi sul blog, video vacui e dilettanteschi, tutto il trash minuto per minuto. Questa pratica diffusa di non comunicazione ha depauperato l’interazione tra le persone, ha agito come un grande occhio globale, superumano, riducendo al minimo le aspettative e le possibilità delle nuove generazioni.

Nel contempo sono spariti i vecchi mestieri ed è chiaro quanto la rivoluzione tecnologica abbia contribuito allo sfaldamento della società precedente. Non si possono tuttavia ignorare le grandi realizzazioni virtuali di musei, siti archeologici e mapps, dove il reale e l’immaginario si incontrano per dare vita a nuove possibilità di scambio e apprendimento” quali il MAV, museo archeologico virtuale di Ercolano.

Le categorie generazionali si collocano diversamente in questo nuovo scenario, perché il possesso delle nuove competenze digitali, è parametro essenziale d’inclusione in tutti i settori della vita socio-economica e politica. Nel 2006 il Parlamento e il Consiglio Europeo nelle loro “Raccomandazioni” hanno introdotto il concetto di “digital competence” fra le otto competenze essenziali per una “cittadinanza attiva”. Nell’era digitale si delinea un nuovo tipo di cittadinanza: la cittadinanza in senso formale e la cittadinanza in senso sostanziale, in base alla possibilità di accedere alle informazioni digitali, alla possibilità di apprenderne l’uso e alle capacità di discernimento di tali informazioni automatiche. La scarsa diffusione di Internet nel nostro e in altri paesi europei è dovuta alla carenza dei pre-requisiti descritti prima. Un ruolo primario deve essere assegnato alla scuola nel processo di acquisizione delle competenze digitali; ma la stessa deve saper dirigere tale processo verso il fine della formazione equilibrata della persona umana. Quindi “nulla questio” sullo sviluppo tecnologico, ma un monito a non perdere quanto di positivo anima il cambiamento della società perché esso dia pari opportunità ai cittadini, realizzandosi nell’ambito della democrazia. E le “faccine”? Per favore torniamo a riconoscere e a comunicare quelle che si manifestano dentro di noi in un contesto di apertura verso gli altri. Possibilmente reali.

 

 

 

 

Libri e siti consultati:

-Z. Bauman, Amore liquido, La Feltrinelli

-Sito http://blog.indigenidigitali.com/-

-Ribolzi, Processi formativi e strutture sociali, Ed. La Scuola

MARISA COSSU

ALIBI, la poesia dimenticata

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Un saggio su Elsa Morante ( EUTERPE, rivista letteraria)  a cura di Marisa Cossu

ALIBI, la poesia dimenticata

 “Se, dunque, si è indotta a pubblicare questi versi [ …] l’Autrice lo ha fatto soltanto nella speranza di rendere a chi legge, un poco di riposo, e di divertimento, che lei stessa ne ha tratto …”

(Elsa Morante, Alibi)

 

Alibi è allora “… un divertimento al quale essa ama talvolta abbandonarsi senza troppo impegno, per piacere della musica” (Elsa Morante, Alibi).

Per troppo tempo la poesia di Elsa Morante è stata considerata come qualcosa di estraneo all’appartenenza dell’autrice alla casta degli scrittori professionisti, mentre i “veri poeti”, quelli laureati da una vasta e corposa produzione, non si occuparono più di tanto di Alibi e Narciso, un breve fascicolo nato subito dopo il primo.

Alibi fu pubblicato nel 1958 da Longanesi ed uscì contemporaneamente dalla stessa casa editrice, a L’usignuolo della Chiesa cattolica di Pasolini e a Croce e delizia di Sandro Penna; in un primo momento grande fu il clamore intorno all’evento per l’eccezionale trittico, ma presto la Morante poetessa fu dimenticata.

Alibi fu letto come uno sfogo intimistico ed archiviato tra la produzione minore, appunto una poesia dimenticata.

La riscoperta della poesia di Elsa Morante è dovuta al ripensamento e all’accortezza di Cesare Garboli che nell’introduzione al libro, pubblicato per Einaudi nel 2004, si dichiara responsabile di “aver sottovalutato Alibi, di averlo penalizzato, di averlo gettato nello scaffale dopo un’occhiata distratta …”.

Le ragioni del ripensamento del critico avvennero per l’interesse culturale maturato nel tempo con la riconsiderazione dell’intera produzione letteraria di Elsa Morante. Il Garboli, nell’introduzione ad Alibi, afferma di prediligere la poesia in rima, la metrica tradizionale, e questa scusante investe di maggiore interesse le motivazioni alla valorizzazione di Alibi. Il libro è un canto tormentato e profetico sull’amore. E sono amori destabilizzanti, amori come “infezioni” e malattie dell’anima, quelli descritti dall’Autrice.  Lo stesso titolo, Alibi rappresenta la metafora del vuoto sentimentale e dell’incompiutezza delle passioni, dietro l’infingimento della poesia. Gli stessi brani sono il riflesso, o l’eco, della sua narrativa e nascono dalle emozioni delle storie che restano vive nell’animo della Morante, come parti essenziali della sua personalità e della sua scrittura: un gioco in cui ogni parte conclusiva si lega all’introduzione di una nuova opera.

L’io profondo legato al misterioso fato, conduce l’Autrice a pensare in una dimensione “di vaticinio”in cui si affaccia il vuoto degli amori finiti nel nulla e la nascosta, e spesso irridente speranza, da proiettare nel futuro, delle emozioni e delle esperienze tragiche di delusione e depressione, vissute  in alternativa alla vita vera.

Solo a tratti una grazia velata da ironia, come nella poesia”Minna la siamese” appare nel  consolatorio abbandono:

“Ho una bestiola, una gatta: il suo nome è Minna

e ciò che le metto nella scodella, essa mangia,

e ciò che le metto nella scodella , beve …”

 Qui l’amore appare rivestito della gioia di lasciarsi amare : basta poco a rendere felice Minna! Unghie per una carezza e denti adoperati “solo per gioco”.

Ma l’amore non è così semplice ed assoluto: è reciprocità pensata e voluta, un continuo rimando a metafore di situazioni amorose, a miti e leggende.

Solo chi ama conosce,povero chi non ama” scrive in una composizione dettata dalla storia d’amore con Visconti. L’amore e la conoscenza sono le facce di una stessa medaglia, sia nel senso che un filosofo potrebbe attribuire all’affermazione, sia nel senso psicologico  di un’ incapacità a conoscere la persona amata e, nel contempo, la difficoltà a riconoscere se stessa perché non amata. L’incipit di Alibi succede al precedente libro, Avventura. Fino ad ora, le poesie di Elsa Morante avevano raccontato l’amore come schiavitù, come esaltazione dell’annullarsi nell’accettazione dell’altro.

Con Alibi la riflessione amara prende il sopravvento e la poesia assume una disincantata  evoluzione da cui emergerà Narciso come appendice e conclusione del tentativo di autoreferenzialità ; un gioco di scatole cinesi la scrittura poetica della Morante che trae sempre altra materia per nuove conclusioni. In questo percorso si attua una specie di uscita dal male, dal nulla e dall’impossibilità di amare: il conflitto viene superato dalla contiguità tra immaginazione e verità, in cui si risolve infine l’infingimento necessario a mescolare i due riferimenti vitali. In Amuleto leggiamo  la distanza tra l’idea dell’amore e la realtà di un deludente rapporto. Scritta nel 1945, propone la sua “assenza”, il non essere vista e amata mentre l’amore incompiuto si congiunge alla “sorte”ed entrambi sprofondano nell’interiorità dell’Autrice:

“Quando tu passi, e mi chiami,

assente son io.

Per lunghe ore ti aspetto,

e tu, distratto, sei altrove”

 Due anni dopo, scrive Finzione dedicata ad Anna, il personaggio del romanzo Menzogna e sortilegio cui fa da avantesto:

Di te , finzione mi cingo,

fatua veste.

Ti lavoro con l’aure piume

che vestì prima di esser fuoco

la mia grande stagione defunta

per mutarmi in fenice lucente.

L’ago è rovente, la tela è fumo.

Consunta fra i suoi cerchi d’oro

Giace la vanesia mano

pur se al gioco di m’ama non m’ama

la risposta celeste

mi fingo.

Il testo spiega la poetica visionaria passione dell’Autrice per le pene di amori immaginari e impossibili. Una finzione è la vita, sia pure nelle ceneri dell’incendio dell’animo e del corpo. Un testo ermetico, corrispondente alla chiusura in sé della scrittrice, alla tristezza genuina proiettata verso il futuro come un sortilegio. La Morante ci introduce in un magico incantamento proteso alla precognizione del destino. Sa di non poter essere felice, ma si riveste delle tracce di altri amori, di altre storie, quelle vissute dai realistici personaggi dei suoi romanzi.

Marisa Cossu

Bibliografia

-Elsa Morante, Alibi

-In appendice: Quaderno inedito di Narciso – Ed. Einaudi

-Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi – Ed. Einaudi

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“La grande illusione”

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“Apparenza e realtà”- Rivista letteraria “EUTERPE” 22

Grande soddisfazione!

Il mio saggio” LA GRANDE ILLUSIONE” è stato pubblicato sulla rivista letteraria “Euterpe “in seguito alla partecipazione al concorso dal tema  “L’apparenza e la verità”.

RIVISTA-EUTERPE.BLOGSPOT.Com

Marisa Cossu

LA GRANDE ILLUSIONE

 

 

“Noi siamo di tale stoffa, come quelle di cui son fatti i sogni,

 e la nostra breve vita è chiusa in un sogno.”

“ W. Shakespeare”

 

 

Nell’età dell’immagine è bene confrontarsi sul tema della “rappresentazione”, sia in quanto sull’apparire si fondano i valori etici ed estetici della società contemporanea, sia perché la riflessione da diversi punti di vista, può contribuire a far luce sugli aspetti più controversi dell’antinomia intorno cui si svolgono queste sintetiche argomentazioni.

L’immagine è il volto che presentiamo agli altri, perciò la carichiamo di significati appartenenti alla persona che vorremmo essere o a cui ci conformiamo per essere accettati ed amati. L’uomo è un collezionista di maschere e si rifugia in esse nel contesto delle relazioni sociali, tanto che Pirandello ebbe a dire, riferendosi all’opera teatrale Sei personaggi in cerca d’autore, che essi “sono più veri e reali di tutte le persone che erano teatro”.

Nella società liquida, si sviluppano  comportamenti individuali e collettivi rarefatti ed evanescenti, la cui velocità ha superato il valore della lentezza; nella società iperconnessa, la vera comunicazione e l’empatia sono lampi nell’enorme crisi dell’uomo tecnologico, l’uomo protesi. L’atteggiamento autoreferenziale e narcisistico del Contemporaneo scava fossi di diffidenza e incomprensione, accresce l’estraneità e il male del vivere, suscita bulimia di possesso e rende sempre più sperduto l’uomo nella corsa verso l’eterogenesi dei fini.

Nel processo di superamento delle crisi e di riappropriazione del sé, assume enorme valore l’educazione e la formazione al sentire, all’apertura, attraverso l’immaginazione e l’intuizione dell’infinito. Da queste considerazioni può essere avviato un progetto di Poesia come abitudine alla ricerca del bello assente da in tanti settori della vita umana, per accrescere il gusto della scoperta, guardando dall’interno, oltre gli schematismi e le certezze acquisite. Il divenire ha la possibilità di creare, di porre domande e il dover essere è volontà di raggiungere la possibile conoscenza.

La rottura delle maschere, da un punto di vista psicologico, provoca sempre un grave malessere personale: estraneità, spersonalizzazione, alienazione.

Mi soffermerei a guardare da altri punti di vista l’affascinante tema dell’apparenza e della verità, oggi che l’apparire sembra essere il tratto distintivo e necessario dell’uomo, la sua grande illusione.

Perché la grande illusione?

Essa è il sentiero che ci guida nella ricerca di ciò che è, attraverso lo svelamento del mondo e la conoscenza di noi stessi. Forse è l’errore che dobbiamo compiere, il muro su cui dobbiamo inerpicarci, l’infingimento che ci stordisce, da cui ritornare dopo un duro lavoro che a volte copre gran parte della vita.

“Nessuno si attiene a un solo ruolo, ma tutti siamo multiformi”(Seneca)

“Spesso gli uomini vivono di sogni” (Platone)

 

L’uomo è immerso nella materia, ma  il materialismo è  negazione del soggetto perché le due cose combaciano; ma anche l’idealismo sembra errato perché considera  la materia divisa dall’idea che la sottende; la vita continua ad essere sogno, incantesimo, una realtà oscura che il Contemporaneo cerca di ignorare ed esorcizzare dimentico dell’indagine svolta dagli albori del pensiero intorno ai temi della vita e della morte.

Nella realtà il principio del divenire si manifesta come necessità fisica, logica, matematica e morale, ovvero come causalità; la rappresentazione, il fenomeno, come velo di Maya, è l’apparenza illusoria e consiste nel fatto che il soggetto e l’oggetto siano considerati come espressioni delle forme a priori di spazio , tempo e causalità, come afferma Schopenhauer.

La distinzione tra fenomeno e noumeno spiega che il fenomeno è la sola verità accessibile alla mente umana; il fenomeno è illusione, sogno, apparenza mentre la cosa in sé è il noumeno celato dietro il velo di Maya.

Ciò che il corpo può conoscere attraverso l’esperienza sensibile si scontra con un velo che nasconde l’essenza delle cose e realizza una consapevolezza al limite della natura umana.

Ciò che vediamo, e di cui creiamo immagini mentali attraverso i sensi, è ingannevole e illusorio: non sempre ciò che è, è come sembra.

“E’ Maya il velo ingannevole che avvolge il volto dei mortali e fa vedere loro un mondo del quale non può dirsi né che esista né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente” ( Schopenhauer)

Quindi la realtà visibile dell’apparenza è illusione, l’essenza della realtà, o noumeno, si nasconde nel fenomeno, ( ed ecco il nascondiglio dell’essere di Heidegger).

Dobbiamo rompere questo velo per calarci nel nascondiglio, nell’ infinita ricerca dell’essenza, della conoscenza e della bellezza perché  solo in questa dimensione e proiezione della nostra soggettività possiamo cogliere tracce significative dell’assoluto, uscendo  dall’equazione  conoscenza-rappresentazione.

Nell’io profondo, l’uomo sente la volontà di vivere e di squarciare il velo di Maya, di guardare oltre il sensibile percettivo per giungere ad un’idea di mondo disegnata non soltanto dall’apparato neurobiologico di ciascuno, ma dato da idee che si celano nell’ assenza e che, proprio perché misteriose, stimolano  l’anelito metafisico dell’uomo.

In questo percorso l’uomo si ferma, ritornando in se stesso, e trova il tempo per riflettere sulla vita e sul rapporto con l’altro; qui può scoprire che l’apparenza è opportunismo, conformismo, narcisismo. Esiste l’essere oltre l’esistito, il possibile divenire costruito dalla volontà.

Anche l’arte viene in aiuto di questa riflessione:

nella pittura contemporanea citerò, tra i tanti, un esempio di consapevolezza della dualità dell’animo umano e della visione del mondo, Magritte, che amo proprio perché riesce a sollevare dubbi sull’apparenza e la verità, ammesso che esista una verità comprensibile dall’uomo, dato che essa è un valore assoluto e dogmatico.

Il surrealismo di Magritte è un prodotto mentale, come per il grande Leonardo, e viene spiegato dagli opposti di cui è costituita l’anima umana: realtà – apparenza,  sostanza – evanescenza, luce – ombra; il velo di Maya compie il suo lavoro anche qui,nelle contraddizioni e nel paradosso, volutamente lontano da ogni simbolismo, dove la visione della realtà e la sua rappresentazione  sono facce di una stessa medaglia  di cui non si comprende quale sia l’immagine reale e quella ingannevole ma possibile; esse, infatti, coesistono nello stesso dipinto, ciascuna con la sua forza espressiva, enigmatica, essenziale.

Risulta l’insanabile distanza che separa la realtà dalla rappresentazione: “l’immagine assume allora l’aspetto di uno schermo cieco la cui ovvietà non è altro che un’illusione.”

Il tradimento delle immagini (Questa non è una pipa,1929),  fa ben comprendere come tra apparenza e verità non si possa distinguere. Solo a livello morale e psichico l’uomo può esprimere un’idea di valore.

Vorrei concludere in poesia, mia principale passione, con una breve riflessione su Eugenio Montale premio Nobel per la letteratura, nel 1975. Il poeta della condizione umana, esprime nella sua opera, un pensiero molto vicino a quello di Shopenhauer; perciò è stato definito il poeta della negatività o della corrosione critica dell’esistenza (A. Marchese); in realtà egli è testimone delle contraddizioni e degli affanni del suo tempo. La coscienza intellettuale lo pone al di sopra delle parti in una condizione di solitudine e incomunicabilità ma il suo impegno etico ed umano è universale e gli consente  il necessario distacco per esprimere la sua poetica. L’universo in cui tenacemente risiede il poeta, potrà trovare un punto di fuga e squarciare la realtà apparente?

“ Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro/ per vedere il Signore se mai passi. / Ahimè, non sono un rampicante ed anche/ stando in punta di piedi non l’ho mai visto”. (Montale, Il diario).

In conclusione, con Montale, amo citare questi versi emblematici.

“Sotto l’azzurro del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai:perché tutte le immagini portano scritto ” più in là”.

 

Marisa Cossu

 

Libri consultati:

  • Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, P. Savj-Lopez, G. De Lorenzo, Biblioteca universale Laterza, 2009
  • Questo non è un libro, Margherita e Rosetta Loy, Gallucci Ed. 2015Luigi Pirandello, Edizione speciale della UTET, i Nobel 1972 (introduzione di Luigi Ferrante) 
  • E. Montale, Poesia, Prosa, Traduzioni, Ed. speciale UTET 1977 (introduzione di Angelo Marchese)