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DOPO AUSCHWITZ

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Imm. dal web

DOPO AUSCHWITZ

Dopo Auschwitz, ammesso che sia possibile ritenere conclusa la caduta dell’uomo; dopo la perdita dell’umanesimo, dopo gli orrori dei genocidi, dopo le più atroci conseguenze del razzismo e dell’odio per il diverso, e mentre ancora il Male si affanna ad annientare ovunque i residui barlumi di umanità, seppure debolmente presenti nel mondo contemporaneo, molti si chiedono se la poesia non sia morta con la pietà, se essa abbia ancora la forza di riassumere senso e valore.

Vi sono baratri che non trovano corrispondenza nella parola e macerano le coscienze nella memoria; non è sufficiente ricordare perché ancora e sempre nasceranno dai vinti e dagli sconfitti grida di dolore che molti tenteranno di soffocare.

Può l’uomo toccare il fondo della sua bestialità e riemergere dalla totale disumanizzazione, dalle rovine e dalle ceneri dell’anima anche ravvivando la fiamma della poesia?

Mi piace citare Theodor W. Adorno:

“Il dolore incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare. Perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia … L’Arte che non è più affatto possibile se non riflessa, cioè presa se non come problema, deve da sé rinunciare alla serenità. E la costringono innanzitutto gli avvenimenti più recenti, il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena”.

Marisa Cossu