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Rimorso

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Chagall Marc (2)

M. Chagall, Bacio

Rimorso

A volte s’alza un’ombra nella stanza,

la sensazione che ancora tu mi chieda,

con voce spenta e tremula, la fine

 del tempo che implacabile ti avanza

 ed io, impaurita, provo la mancanza

 di  emozioni più nette, sono preda

del sentimento vuoto del confine

che del mio agire frena la speranza.

 Ora mi brucia in petto quel rimorso

di aver permesso che soffrissi tanto,

dell’impotenza a vincere il dolore.

 Coi gesti mi chiedevi quel soccorso

che avrei voluto offrirti per incanto:

mi tratteneva Dio nostro Signore.

Marisa Cossu

 

Il mio presepe

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Il mio presepe

 

Il mio presepe dalla culla vuota

tenero e antico mi sommuove il cuore

quando discioglie i veli del passato,

che passato non è col suo dolore.

E ancora inchioda al tempo

il mio tormento per il bambino

che più amavamo in terra

come splendente dono del Signore

e fu lucente stella messaggera,

un bel fiore sbocciato in una serra

e poi  lampo svanito

di una cometa alata

ormai discesa con l’argentea coda

tra gli angeli dipinti sullo sfondo

del perenne presepe senza luce,

dipinto in casa come arcaico segno.

 

Marisa Cossu

 

Spesso incontrai

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Spesso incontrai il dolore e tristi note

versai nelle parole del mio foglio

che ancora nel profondo mi percuote

pur se non voglio;

 

spesso dimenticai la mia rovina,

i tentativi sono stati tanti,

ma impietosa memoria mi trascina

con i miei canti.

 

E risospinge nello stretto imbuto

ogni mio nuovo ardore, nel rimpianto

del più bel tempo che abbia mai vissuto,

goduto tanto;

 

forse era solo amor di giovinezza,

forse solo di un fiore la caduta,

l’unico bene nato alla bellezza

ormai perduta.

 

Marisa Cossu

(Ode saffica)

Il filo d’erba

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Dalla fessura aperta tra le zolle

esile filo d’erba, cercando il sole

tra le pietre appari del durevole

tempo di neve e gelo

e nasci unico e solo dalla terra.

Si tinge il campo della forza verde

che fuori ti sospinge

perché tu spieghi il senso della vita

e della tua prigione,

del ritorno del tempo nel suo flusso

di morte e vita senza una ragione.

 

L’apparente mistero ora m’inquieta

quando nell’erba leggo l’io profondo

della città deserta del dolore

filo verde d’attesa

nuova speme da compiere vivendo

nella vasta ferita dove il tempo

pesa la sua misura di fatica

appare eterno e come stella muore.

Marisa Cossu

L’incantesimo del vuoto

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Incantesimo del vuoto,

leggerezza sublime del non esserci,

restare in opposti confini

dove l’amore si annulla nel silenzio

e i pensieri cadono irrealizzati

in isolate stanze di sole.

Quale grave forza del vuoto

nel suo vortice necessario

depone la paura del vivere,

quale menzogna pervade

le radici dell’ansiosa realtà.

Quale vita è questa

che ruba il tempo,

quale incantesimo è questo

che solleva il dolore

e lo lenisce nell’imbuto del vuoto.

©Marisa Cossu

Quadri

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Frida Kahlo, autoritratto con vestito di velluto

Frida Kahlo, autoritratto con vestito di velluto

I quadri mi guardano dalle pareti

con l’immobilità definitiva dei morti:

sono madri, padri, fratelli e sorridono

a tutti e a nessuno con rigide labbra

di un rosso sbiadito, enigmatico e stanco,

ora oggetti, mattoni colorati sui muri

come non fossero mai stati emozioni,

sangue dell’esistenza, liberi solo nell’aria

che  li attraversa in un filo di sole.

Traspaiono da finestre sempre aperte

impolverate e statiche, sul mondo dei vivi,

replicanti inconsapevoli del dolore, destinati

a ripetersi come se nulla fosse accaduto

sullo sfondo di un  momento di distacco.

Essi resistono nell’abitudine di essere visti,

ma non guardati, oltre il loro tempo,

come interroganti icone della memoria

dove ogni parola spenta si riaccende

nell’ oltre cui trattengo il mio pensiero;

la risposta a me stessa è camminare

sulle impronte del loro ieri esistito;

forse la vita è altrove, in luoghi indefiniti

ed io sono soltanto un timido riflesso

del loro essere immutabili e freddi

nella distante dimensione dell’ oltre.

©Marisa Cossu

Non un fiume

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Bocklin, L’isola dei vivi, 1888

Non un fiume divide

la città celeste

dal dolore dell’uomo,

non un fuoco o un castigo,

ma un assurdo silenzio,

un’afflitta pena d’odio,

il piangente malessere

del vivere ogni giorno con se stessi

e sentirsi smarriti in luoghi alieni.

Ciascuno afferra il suo sospeso segno,

una fatua favilla che rischiara

il timore dell’essere disperso

nel vuoto personale del non-senso;

ma brilla per un tempo troppo breve

il lampo di riflessa luce e scalda il cielo;

ciascuno cerca l’isola felice

fuori di sé e ne segue la traccia

di sogno e di illusione,

personifica Stige come dea

nel tempo che separa le due sponde.

La mia bella figlia

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Andy Warhol, Madre e figlia, Tina e Lisa Bilotti,1981

La mia bella figlia se n’è andata

per terre e per onde sulla nave d’ Oriente

e domani vedrà isole dai nomi mitici

dove mare e cielo disciolgono l’azzurro

sulle case assolate, sui terrapieni di gerani rossi.

Volano i tuoi capelli, neri e intrecciati,

indomabili in ciocche come te ribelli,

gli occhi accesi, le mani così simili alle mie;

la tua altera bellezza reca il segno

di un dolore antico, un’ illusione,

pensata e non vissuta, di un’attesa.

Vorrei dirti parole di una madre

consolatrice nel chiuso del suo amore

e mi fa male non esserne capace,

esserti accanto giusta, ad addolcire

la vita che ti assale in solitudine

e rivelarmi come tu mi vuoi.

© Marisa Cossu

la campana sepolta

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Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri, 1791

La campana sepolta  nella terra,

mi ha chiamata da un tempo indefinito

in un angolo d’erba umida e verde

e mi scuote dal sonno e dal torpore

perch’ io canti e raccolga il dolore

in un rifugio di parole antiche,

sola a me stessa, invisibile agli altri.

Ora mi toglie il tempo ogni bellezza

e mi sospinge al centro del rumore

nella memoria di infinite vite e delle morti

che da sempre si alternano nel mondo.

Non vorrei più contare le ferite

rosse e dolenti aperte nelle carni

dei deboli e dei vinti, delle ombre

vaganti per questa strada impervia;

non vorrei più ascoltare fossili grida

confuse con la terra, ignorate ed escluse

da una luce effimera di gloria,

se non fosse per quel sommerso suono

che ci chiama dal sonno della mente.

Dalla pietraia immemore dell’anima

la campana già suona, batte alla porta

con i rintocchi della ragione persa.

LA GUERRA

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                                                                     The Scream by Edvard Munch( L’urlo di Munch)

Lasciate in pace

i morti della guerra

ammassati nell’ ombra dei cortili

nei cimiteri di pietra

sotto legni senza nome

solo numeri

dell’ orribile conta.

Lasciateli sotto la terra

dove le madri hanno deposto un fiore

tra macerie bruciate

nel fumo d’ odio

sotto alberi spezzati

e l’ urlo delle donne.

 Lasciate in pace i vivi

avviliti fantasmi di memorie

di fame e di dolore

senza casa né storia

dispersi per il mondo su barconi

su treni, su camion per fuggire

lontano a piedi nudi.

Lasciate in pace

questa povera terra

violentata e corrotta

da nuovi e antichi barbari.

…e  riposi anche il pianto

nel sorprendente

silenzio delle armi.