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Senza tempo

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1- Paestum

Paestum

Senza tempo

Forse nessuno prima aveva visto

sostare sulla riva un vecchio cieco,

un uomo antico, un mitico poeta,

mentre rivolto al mare

ne ascoltava la voce

e ne cantava assorto, le avventure,

il risonante sciogliersi dell’onda

in schiuma di memoria.

Con lui era già il mio canto di fanciullo,

il lancio delle pietre a pelo d’acqua

o nell’esigua ampolla

che dalle rocce in mare si riversa.

Era il Galeso, amato dai poeti

per il dolce falerno,

il luogo a me più caro.

E il mito era già lì,

con me veniva tra voci di vento

in un libro consunto,

un De Chirico falso degli sposi

nell’ abbraccio d’addio.

Nessuno aveva visto a me vicina

Andromaca tremante:

nel fragore dei flutti cade il pianto

che di dolore muove e gonfia l’onda.

Fulgido scudo ancora in me risplende

e il tempo non esiste:

il tutto regna insieme,

anche il mio smarrimento

vile, che via facendo, perde il senso

di ciò che meraviglia.

Se tutto scorre, sulle pietre resta

tra salici piangenti la presenza

del canto che mi danza in petto adesso,

qui, dove si dipana il libro informe

del mio pensiero vano.

Marisa Cossu

Ciò che resiste

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1- Paestum

Paestum

 

 

Ciò che resiste al tempo è la memoria,

profumo delle cose già vissute

nello scorrere liquido del fiume

che bagna l’esistente.

Solo una volta ti lambisce e fugge

e muta l’onda: non più la stessa acqua,

dove ora siede il tuo sogno ingrigito;

con un ritorno breve ti consola

il nostalgico film di ciò che è stato.

Solo parole, sillabe d’inchiostro,

graffiti e segni d’immaginazione,

scavano nella notte dove affonda

il senso delle cose nel mio foglio;

ma io ti vedo, siedi nel non senso

di un libro vuoto e cerchi di tornare.

Marisa Cossu

Questo libro

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Questo libro, la mia vita,

queste pagine di carta ingiallita,

non lo vedrà nessuno,

e nessuno leggerà nell’inchiostro

la pena della mia mano.

Sto lasciando al nulla

i versi che mi bruciano l’anima,

i pensieri della  notte d’autunno

che alita il maestrale

sulla lucerna tremolante.

Questo foglio pieno d’ombra,

la mia storia superata,

divisa in pagine numerate,

in paragrafi definiti;

il mio ordine senza ragione

andrà come le foglie

in un rigagnolo di pioggia

per versarsi nel mare

dove tutto scorre per il suo verso

e ritorna sempre

come nebbia evanescente.

Marisa Cossu

 

Le ceneri dell’io

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Anselm Kiefer, I tuoi capelli di cenere, 1981

Le ceneri dell’io

non riposano in urne preziose,

i frammenti del tempo

non le racchiudono per sempre.

Si disperdono in avamposti marini,

nelle pietraie dei nuraghes,

nei sottosuoli delle città,

sono macerie stratificate

risorte in torri e tralicci;

riposano in profondi ipogei,

guardano da occhi di antiche pareti

da un affresco evanescente

dove un fuoco acceso da fuggitivi

ha lasciato un’impronta di fumo

sbiancato dalla luna nelle acque

di un pozzo senza fondo.

La polvere innalza spessore d’identità

e nuda si confonde alla terra,

da essa emerge materia costruttrice,

sensibile  appoggio al divenire,

un quanto indecifrabile espulso

dalla barbarie di un libro bruciato,

sottratto all’apoteosi e poi dissolto

nell’infinita logica del tempo.

©Marisa Cossu

 

 

Tronco

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Nel ventre di un tronco cavo,

tra le nere scorze d’un albero

dilaniato da pallida luna,

piange di solitudine

il poeta inconsapevole

racchiuso in me,

uscito dal suo libro

in parole di vento

adombrate da tremuli rami.

Così, io vivo nella notte

ripiegato nel rifugio più adatto a me;

lo riempio del mio essere albero,

del mio essere tutto,

creatura ferita,

bruciata da un fascio di luce,

un soffio di vita venuto in silenzio

sul tronco di vita che resta.

©Marisa Cossu

Di notte

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Joan Mirò, Personnages et oiseau dans la nuit

Joan Mirò, Personnages et oiseau dans la nuit

Di notte, quando nessuno le vede,

le cose vivono un’ altra vita,

si nutrono della nostra assenza,

respirano la nostra aria,

escono da se stesse e vagano

per le stanze addormentate;

escono le parole dei poeti

dai fogli appena scritti,

dai fiori l’ idea di fiore,

dalla conchiglia sul tavolo

il rumore del mare,

dalle opache pareti

nuvole di pensieri;

rivivono gli abiti riposti

in armadi dimenticati.

Tu esci dal tuo libro

ma non vedi la danza

finalmente libera

dall’essere cosa;

non senti il respiro del vuoto

e non scruti il riflesso

della profonda vacuità

del tuo essere cosa.

COME IMPARAI A LEGGERE

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Peppina, la “servetta”( così si chiamavano in Sardegna a quel tempo le ragazze messe a servizio presso una famiglia più abbiente),  venuta con noi da Pabillonis a Oristano per aiutare mia madre con noi bambine e nelle faccende domestiche, mi guardava atterrita e impotente mentre mi dondolavo a cavalcioni sul  ramo del grosso fico cresciuto nel cortile della casa rosa; avidamente, più per sfida che per gusto, assaporavo un frutto maturo e zuccheroso da cui stillavano gocce di un latticello bianco e appiccicoso.

Era uno dei tanti pomeriggi della calda estate isolana, ormai agli sgoccioli, in cui , mentre i grandi si concedevano un breve riposo all’ interno della casa dalle pareti di un rosa sbiadito dal tempo, le verdi persiane appena accostate, penetrate insieme all’ ombra dal vento marino , io  me ne stavo appollaiata lassù tra il volo di calabroni dalle ali argentee e vibranti, e il passaggio veloce di uccelli che, provenienti dai folti eucaliptus, venivano a beccare al volo i fichi per scomparire dietro il muretto a secco che circondava la casa; accanto al muretto, e non lontano dall’ albero, si era moltiplicata una famiglia di fichi d’ India che mi osservava dai grandi faccioni verdi delle pale spinose sormontate da creste rosse.

Sulla facciata della casa si innalzava una pergola di glicine con grossi pampini viola. Dora, la mia sorellina, se ne stava ai piedi dell’ albero piagnucolando, un grande fiocco rosa tra i capelli, implorandomi di venire giù  stropicciandosi gli occhi lacrimosi e il cola naso con le manine sporche di argilla. Peppina, viso rotondo, occhi neri allarmati come due mandorle schiacciate e due treccine nere appuntate ai lati della testa, ormai paonazza, minacciava di chiamare papà e mamma.

La discesa dall’ albero, come sempre era avvenuto in quei pomeriggi, comportava l’ inizio di una nuova avventura, all’ interno della casa: Dora ed io giocavamo a nasconderci negli armadi o in qualche stanzino buio per niente spaventate dalle  terribili storie che Peppina  ci raccontava per tenerci a freno; poi lei veniva a cercarci e scoprendo i nostri nascondigli giocava con noi come una bambina; ma c’ era un gioco nel quale mi distinguevo per la capacità di arrampicarmi sui mobili del salotto, luogo proibito ai bambini specialmente se molto sporchi.

Lì non si poteva entrare liberamente come in tutte le altre stanze , si stava seduti educatamente ed io immaginavo che vi fossero nascosti i misteri della casa, gli oggetti preziosi i libri che non sapevo ancora leggere; in realtà vi troneggiava una grande libreria sulla quale erano state disposte le poche cose importanti salvate dalla guerra, un vasetto dipinto a mano ereditato dal nonno paterno, qualche statuetta di famiglia e alcuni libri a cui mio padre teneva in  modo particolare.

Era quella un’epoca grama in cui i bisogni dei bambini erano spesso soverchiati dalle esigenze della normale sopravvivenza. Si usciva anche da un periodo in cui i libri da alcuni folli erano stati bruciati e la cultura bandita…la guerra aveva ucciso la speranza e la sapienza e a fatica si cercava di ricostruirle.  Io ero affascinata da quei libri; ma ce n’era uno bellissimo con la copertina azzurra e grandi lettere dorate in rilievo che con l’aiuto di Dora e la complicità di Peppina, riuscivo a sottrarre ogni giorno per sfogliarlo nella nostra cameretta. Nulla mi attraeva di più di quel grosso volume le cui pagine di giorno in giorno divenivano più chiare e familiari…e piaceva anche a Peppina che, avendo frequentato la terza elementare obbligatoria( non si usava allora avviare i bambini precocemente alla lettura e alla scrittura), sapeva già leggere.

Peppina fu la mia prima maestra e mi dischiuse un mondo meraviglioso in cui pensavo di non poter entrare alla soglia dei cinque anni: dopo il piacere dell’ arrampicata colpevole sull’ albero del fico, quelle ore di fantasticherie e di lettura delle illustrazioni di un pittore a suo tempo molto noto, incisero nel mio animo profondamente la voglia di imparare e mi accostarono ai  primi elementi della lettura. Toccavo le parole e le lettere in rilievo con un  piacere ed un’ emozione molto forti, leggevo le illustrazioni inventando storie e ponendo domande a Peppina; a volte Dora si addormentava sul divano e Peppina le pettinava i lunghi capelli.

Ormai immaginavo di sapere tutto su Mario, Cosetta , il Vescovo di Digne, Jean Valjean, e di altri personaggi di quelle storie che avrei riletto molti anni dopo con grande emozione e interesse: le lettere in rilievo scrivevano il titolo e l’ autore: I Miserabili di Victor Hugo; in  alto campeggiava la scritta: 1930- Premio di studio.

Ma torniamo alla narrazione: un pomeriggio dei primi giorni di settembre accadde ciò che da tempo sarebbe dovuto accadere; mentre cercavo di rimettere al suo posto il grosso volume, feci cadere dalla libreria tutti i preziosi oggetti che vi erano stati poggiati, il famoso vasetto perse il manico, Peppina si mise a strillare discolpandosi, Dora incominciò a piangere e i miei apparvero  spaventati nella stanza; nostra madre prese in braccio Dora consolandola con dei baci e portandola via da quella cattivona di Marisa.

Rimasta sola con mio padre pensavo alla giusta punizione in silenzio e preparata al peggio; ma mio padre mi fece sedere su un’ alta seggiola accanto a lui parlandomi come fossi grande; volle che gli raccontassi tutto, così scoprì che già da tempo avevo iniziato a leggere proprio su quel libro così prezioso. Ne fu molto orgoglioso e mi spiegò come e  in quali circostanze avesse ricevuto quel premio; mi disse quanto le storie che avevo iniziato a leggere fossero importanti per lui e per tutti perché descrivevano molte ingiustizie, prepotenze e miserie dell’umanità  e infine,  mi fece dono di quel libro che oggi mi appartiene come una delle più care e sentite eredità legate a ricordi incancellabili: con il vasetto senza manico si trova nella mia libreria.

“Fino a tanto che per effetto delle leggi e dei costumi esisterà una dannazione sociale che crea artificialmente in piena civiltà degli inferni, complicando con una fatalità umana il destino, che è divino; fino a tanto che i tre problemi del secolo: la degradazione dell” uomo in conseguenza del proletariato, l’ abiezione della donna in conseguenza della fame, l’ atrofia morale del fanciullo prodotta dalle tenebre dello spirito, non saranno risolti; fino a tanto che in certe regioni sarà possibile un’ asfissia sociale; in altri termini, e sotto un aspetto più vasto, finchè vi saranno sulla terra ignoranza e miseria, libri come questo non saranno mai inutili”.

VICTOR HUGO, prefazione all’ edizione

Hauteville-House, I Gennaio 1862