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E non trovo

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E non trovo certezze

nelle tracce dell’essere esistito,

né l’esistente dall’umano volto

giustifica il mistero

degli albori del tempo e della fine;

soltanto un grande vuoto da colmare

con parole leggere,

senza peso sulle mie spalle d’ossa

e sull’ombra piantata nella terra

dove, impotente, il sogno

tenta il volo per la volta infinita;

poi ripiega nel nulla,

vi ricade senza sapere mai

dove splenda bellezza

che illumini di vero la ragione.

Marisa Cossu

Il filo d’erba

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1440604109_logo-filoderba-320x186[1]

Dalla fessura aperta tra le zolle

esile filo d’erba, cercando il sole

tra le pietre appari del durevole

tempo di neve e gelo

e nasci unico e solo dalla terra.

Si tinge il campo della forza verde

che fuori ti sospinge

perché tu spieghi il senso della vita

e della tua prigione,

del ritorno del tempo nel suo flusso

di morte e vita senza una ragione.

 

L’apparente mistero ora m’inquieta

quando nell’erba leggo l’io profondo

della città deserta del dolore

filo verde d’attesa

nuova speme da compiere vivendo

nella vasta ferita dove il tempo

pesa la sua misura di fatica

appare eterno e come stella muore.

Marisa Cossu

In cerca di poesia

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8da476f72f06a276b1f930cdb28c21f1_XL[1]In cerca di poesia, di senso e di parole

cammino per un fiume senza sponde:

ci sono alberi ingoiati dalla notte

piantati nella palude del vuoto,

un uccello nato dalla mia mente

fugge tra rami dove la luce

è divisa da alti pioppi emersi,

senza radici corrono dietro al sole,

seguono come ombre lineari

la cetra di un dio, si muovono,

si spengono nel tramonto,

sillabano con il vento il loro senso,

si levano dal mio tronco d’ anima,

trascinano il mio vuoto altrove.

 

La mia voce è un balbettio

ripete sillabe e lettere, non è  parola.

La parola è in alto, dove non ho forza,

troppo perché possa raggiungerla.

Il suono e  la ragione, nascono

da quel  vuoto sradicato,

da un ferro conficcato nella carne,

da una rossa ferita che grida il dolore

e da quel sangue sale e respira,

esce da un vasto  corpo di terra;

non ha limiti l’attesa,

la parola si forma, zampilla,

è segno della ferita scavata

nella solitudine visionaria

di un mistero inconoscibile,

cicatrice e nuova creatura.

©Marisa Cossu

 

 

 

la campana sepolta

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El_sueño_de_la_razón_produce_monstruos[1]

Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri, 1791

La campana sepolta  nella terra,

mi ha chiamata da un tempo indefinito

in un angolo d’erba umida e verde

e mi scuote dal sonno e dal torpore

perch’ io canti e raccolga il dolore

in un rifugio di parole antiche,

sola a me stessa, invisibile agli altri.

Ora mi toglie il tempo ogni bellezza

e mi sospinge al centro del rumore

nella memoria di infinite vite e delle morti

che da sempre si alternano nel mondo.

Non vorrei più contare le ferite

rosse e dolenti aperte nelle carni

dei deboli e dei vinti, delle ombre

vaganti per questa strada impervia;

non vorrei più ascoltare fossili grida

confuse con la terra, ignorate ed escluse

da una luce effimera di gloria,

se non fosse per quel sommerso suono

che ci chiama dal sonno della mente.

Dalla pietraia immemore dell’anima

la campana già suona, batte alla porta

con i rintocchi della ragione persa.