Archivi giornalieri: dicembre 2, 2017

“ALLA VOLTA DI LEUCADE” Blog di Nazario Pardini

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NAZARIO PARDINI LEGGE: “POESIE” DI MARISA COSSU

 

 10.- Roma 2016 (8)
Marisa Cossu, collaboratrice di Lèucade

“Una poesia morbida, contaminante, di eufonica intensità meditativa, dove l’animo, affidato ad una alternanza di endecasillabi e settenari, si diluisce in una fluidità narrativa di urgente resa poetica. Abbrivi emotivi, mediazioni esistenziali, scosse sinestetico-allusive, figure di redditizia metaforicità, vertigini di panica immersione, tutto contribuisce a rendere questa poesia estremamente umana, marcata dal supporto di una verbalità che va oltre gli schemi della semplice morfosintassi: una grammatica poetica in note di sinfonia wagneriana. Fenollosa Ernest Francisco afferma che “La poesia è l’arte del tempo”; mentre Alfredo Panzini  definsce i poeti “simili al faro del mare”. Perché iniziare con queste citazioni? È presto detto: sembra proprio che il “dum loquimur…” segni una tappa importante nel diacronico sviluppo delle emozioni della Cossu.

Dove va la vita

mentre di sabbia e pioggia ricoperti,

chiediamo in elemosina una luce

che ci consoli e ci ridoni amore.

Il tempo scorre, e il più delle volte fagocita la parte più importante del nostro vissuto: nascono interrogativi inquietanti che riguardano il nostro rapporto colla clessidra, col memoriale, con thanatos, eros, con tutte quelle questioni che ci poniamo e che sono alla base della nostra inquietudine esistenziale. D’altronde l’uomo è un  piccolo tassello fra il rien e il tout, e soffre della sua precarietà, del fatto di vivere coi piedi a terra e con l’animo vòlto all’azzurro. Una dualità insormontabile data la cecità del nostro esistere; un azzardo senza esiti data la vastità che ci circonda. Pensare il tutto non rientra nelle nostre possibilità. Da qui lo slancio della Poetessa verso vette che la sottraggano alle  precarietà del quotidiano: il Bello, la spiritualità che vinca la materia,  il sogno, l’amore, pur cosciente, Ella, della futilità del qui e del quando:

il  distinguersi nel comune fato,

è illusione evocata,

è misura dei nostri passi incerti

nell’infinita logica del tempo.

Sì, riconosce, la Nostra, la misura dei nostri passi incerti, questo stato nell’infinita logica del tempo. Ma con ciò, pur partendo dalle cose più umili, non rinuncia a quel sentimento umanamente umano, insito nella natura di noi esseri viventi: quello di sorpassare il nostro stato di navigatori senza bussola; farsi Ulisse in cerca di un faro che illumini l’imbocco del porto; in cerca di un’Itaca che ci attende ai confini di un mare immenso e pieno di scogli e di trabucchi. Ed è per questo che la citazioni di Panzini  bene si confà alla ricerca ontologica della Nostra. Il faro del mare. Quella piccola striscia di luce che illumina una infinitesima parte dell’Oceano. Quale simbolo può essere più vicino alla natura dell’uomo; di un essere che allunga lo sguardo oltre i limiti di quella luce, perché è nato per il tutto, per la pluralità dell’universo, per raggiungerlo attraverso la navigazione odisseica di quei gorghi che lo dividono dalla luce; da un sempre da cui forze è nato il suo esistere e verso il quale ambisce tornare per il suo completamento.

Così m’illudo che sia vita questa

che ruba il senno e muto lo riduce,

 stanco e distorto, che nel vuoto resta

 disilluso e sfinito, senza luce.

Forse appigliandoci ad un memoriale che il tempo ha passato dal suo vaglio, rendendolo degno di esistere, significa dare più consistenza alla vita; significa riportare a galla quella parte di noi che l’ingordigia dell’oblio  aggredisce ogni minuto, ogni ora, ogni giorno:

Mentre viviamo già si è consumata

 la fiamma del pensier tanto cercata.

E non è detto che sperdendosi nel Bello, in quella spiritualità che tanto sa di vita ultra, non valga a distrarci dal nostro enigmatico e misterioso destino di mortali.

Non fu solo bellezza a entrarmi dentro

ma l’incontrarti in quella valle amena,

vederti all’improvviso,

mentre salivo il monte della vita.

Come non è detto che la coscienza dell’esistere, il rammarico per la brevità di una vicenda, non siano segni di un forte attaccamento alla stessa; d’altronde questa è la nostra storia: la storia che ciascuno conclude senza gloria; quella che fu bella e che il tempo cancella con un soffio; e del cui cammino  alla sera si approssima il confine “tra terra, cielo ed argentee marine”:

Ciascuno la sua storia

conclude nel silenzio, senza gloria:

 

ai vivi il commentare

con discorsi banali e frasi amare

 

la vita che fu bella

e che vien tolta; il tempo ne cancella

 

con un soffio il cammino

e, al calar della sera, più vicino

 

si approssima il confine

tra terra, cielo ed argentee marine”.

NAZARIO PARDINI

DOMANDE

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Albardili, L’ATTESA

 

 

Domande

Da dove vengo; forse da un silenzio

fattosi sangue per un grumo sciolto

da pietra di caverna;

forse dal lato spazio d’infinito

che non conosco e miro.

 Vago nell’esistente, la mia vera

ragione è scritta in questo manifesto

 di cose intorno al sole

e in esso senza peso mi rigiro.

 

Come si spiega questo tutto, avaro

di segni e di speranza,

in uno stesso luogo e stesso tempo

tra melma e fango, dove i morti tronchi

tagliano strade vuote;

e poi ristoro d’ acqua,

dove uno spento faro

imbianca la scogliera

fino a mostrarsi acceso, intermittente.

Lì depongo le braccia sanguinanti,

ali imbrattate dal terreno affanno,

dentro il dolore che mi ha ben nutrito.

 

E mi salvai per la vincente forza

di un volo di pagliuzze misterioso

che si levava al sole 

e con esso splendente trascinava

l’ultima spina di una bianca rosa.

Marisa Cossu