NAZARIO PARDINI LEGGE: “POESIE” DI MARISA COSSU
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Marisa Cossu, collaboratrice di Lèucade |
“Una poesia morbida, contaminante, di eufonica intensità meditativa, dove l’animo, affidato ad una alternanza di endecasillabi e settenari, si diluisce in una fluidità narrativa di urgente resa poetica. Abbrivi emotivi, mediazioni esistenziali, scosse sinestetico-allusive, figure di redditizia metaforicità, vertigini di panica immersione, tutto contribuisce a rendere questa poesia estremamente umana, marcata dal supporto di una verbalità che va oltre gli schemi della semplice morfosintassi: una grammatica poetica in note di sinfonia wagneriana. Fenollosa Ernest Francisco afferma che “La poesia è l’arte del tempo”; mentre Alfredo Panzini definsce i poeti “simili al faro del mare”. Perché iniziare con queste citazioni? È presto detto: sembra proprio che il “dum loquimur…” segni una tappa importante nel diacronico sviluppo delle emozioni della Cossu.
Dove va la vita
mentre di sabbia e pioggia ricoperti,
chiediamo in elemosina una luce
che ci consoli e ci ridoni amore.
Il tempo scorre, e il più delle volte fagocita la parte più importante del nostro vissuto: nascono interrogativi inquietanti che riguardano il nostro rapporto colla clessidra, col memoriale, con thanatos, eros, con tutte quelle questioni che ci poniamo e che sono alla base della nostra inquietudine esistenziale. D’altronde l’uomo è un piccolo tassello fra il rien e il tout, e soffre della sua precarietà, del fatto di vivere coi piedi a terra e con l’animo vòlto all’azzurro. Una dualità insormontabile data la cecità del nostro esistere; un azzardo senza esiti data la vastità che ci circonda. Pensare il tutto non rientra nelle nostre possibilità. Da qui lo slancio della Poetessa verso vette che la sottraggano alle precarietà del quotidiano: il Bello, la spiritualità che vinca la materia, il sogno, l’amore, pur cosciente, Ella, della futilità del qui e del quando:
il distinguersi nel comune fato,
è illusione evocata,
è misura dei nostri passi incerti
nell’infinita logica del tempo.
Sì, riconosce, la Nostra, la misura dei nostri passi incerti, questo stato nell’infinita logica del tempo. Ma con ciò, pur partendo dalle cose più umili, non rinuncia a quel sentimento umanamente umano, insito nella natura di noi esseri viventi: quello di sorpassare il nostro stato di navigatori senza bussola; farsi Ulisse in cerca di un faro che illumini l’imbocco del porto; in cerca di un’Itaca che ci attende ai confini di un mare immenso e pieno di scogli e di trabucchi. Ed è per questo che la citazioni di Panzini bene si confà alla ricerca ontologica della Nostra. Il faro del mare. Quella piccola striscia di luce che illumina una infinitesima parte dell’Oceano. Quale simbolo può essere più vicino alla natura dell’uomo; di un essere che allunga lo sguardo oltre i limiti di quella luce, perché è nato per il tutto, per la pluralità dell’universo, per raggiungerlo attraverso la navigazione odisseica di quei gorghi che lo dividono dalla luce; da un sempre da cui forze è nato il suo esistere e verso il quale ambisce tornare per il suo completamento.
Così m’illudo che sia vita questa
che ruba il senno e muto lo riduce,
stanco e distorto, che nel vuoto resta
disilluso e sfinito, senza luce.
Forse appigliandoci ad un memoriale che il tempo ha passato dal suo vaglio, rendendolo degno di esistere, significa dare più consistenza alla vita; significa riportare a galla quella parte di noi che l’ingordigia dell’oblio aggredisce ogni minuto, ogni ora, ogni giorno:
Mentre viviamo già si è consumata
la fiamma del pensier tanto cercata.
E non è detto che sperdendosi nel Bello, in quella spiritualità che tanto sa di vita ultra, non valga a distrarci dal nostro enigmatico e misterioso destino di mortali.
Non fu solo bellezza a entrarmi dentro
ma l’incontrarti in quella valle amena,
vederti all’improvviso,
mentre salivo il monte della vita.
Come non è detto che la coscienza dell’esistere, il rammarico per la brevità di una vicenda, non siano segni di un forte attaccamento alla stessa; d’altronde questa è la nostra storia: la storia che ciascuno conclude senza gloria; quella che fu bella e che il tempo cancella con un soffio; e del cui cammino alla sera si approssima il confine “tra terra, cielo ed argentee marine”:
Ciascuno la sua storia
conclude nel silenzio, senza gloria:
ai vivi il commentare
con discorsi banali e frasi amare
la vita che fu bella
e che vien tolta; il tempo ne cancella
con un soffio il cammino
e, al calar della sera, più vicino
si approssima il confine
tra terra, cielo ed argentee marine”.
NAZARIO PARDINI
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